Un blazer impeccabile, occhiali da sole oversize, una sigaretta tenuta come un segno di punteggiatura: James Baldwin era uno scrittore e pensatore che conosceva il potere dell’immagine. E non era il solo. Nel corso del XX secolo, intellettuali e artisti neri hanno trattato la moda non solo come decorazione, ma come una dichiarazione d’esistenza. I loro abiti erano ponderati, ogni scelta carica di significato.

Il Costume Institute del Metropolitan Museum of Art esplorerà questa eredità nella sua mostra primaverile del 2025, **Superfine: Tailoring Black Style**. Ispirata dal libro del 2009 della studiosa Monica L. Miller, **Slaves to Fashion: Black Dandyism and the Styling of Black Diasporic Identity**, l’esposizione esamina come gli individui neri abbiano usato lo stile per ridefinire la percezione di sé. Mette in luce designer come Virgil Abloh e Grace Wales Bonner, oltre alla moda quotidiana dei salotti, delle aule universitarie e dei palchi dei nightclub. Nel ridisegnare il linguaggio della vita e dell’arte nera, queste figure hanno anche creato identità visive audaci—attraverso cappelli, guanti, tacchi e smoking—che hanno comunicato le loro idee al mondo.

W.E.B. Du Bois ha dato il tono. Nell’America del primo Novecento, dove la mascolinità nera era spesso distorta in caricatura, il guardaroba di Du Bois era un atto di sfida: guanti, una barba curata, bastoni da passeggio che erano più che funzionali. Per lui, il dandismo non era frivolo—era una prova. Nel suo capolavoro del 1903, **Le anime del popolo nero**, descrisse la doppia coscienza, la lotta di essere nero in un paese che ti guardava attraverso un velo. I suoi abiti incarnavano quella tensione, trasformando la teoria in forma visibile. Ogni scarpa lucidata e ogni riga impeccabile erano una smentita agli stereotipi che lo circondavano.

Zora Neale Hurston portò avanti quello spirito. Zadie Smith scrisse una volta di ammirare Hurston—il cui saggio del 1934, **Characteristics of Negro Expression**, influenzò la struttura di **Superfine**—per molte ragioni, non ultima la sua passione per i cappelli. In un saggio del 2009, Smith sottolinea una delle dichiarazioni più fulminanti di Hurston:

> **”Quando inclino il cappello di un certo angolo e mi avvio per la Seventh Avenue, Harlem City, sentendomi altezzosa come i leoni davanti alla biblioteca della Quarantaduesima Strada… Peggy Hopkins Joyce sul Boule Mich, con i suoi abiti sontuosi, il portamento regale, le ginocchia che si toccano in modo aristocratico, non ha niente su di me. Emerge la Zora cosmica. Non appartengo a nessuna razza o epoca. Sono l’eterno femminino con la sua collana di perle.”**

Questa era Hurston in sintesi: nata nel Sud segregazionista, istruita al Nord, ma rifiutando di essere confinata da entrambi. Respinse sia il rigido decoro delle élite dell’Harlem Renaissance sia il distacco clinico degli antropologi bianchi, optando invece per abiti di satin, scarpe di pelle di serpente, stole di pelliccia e cappelli piumati. Trasformò l’identità in uno spettacolo.

Una generazione dopo, James Baldwin, come Hurston, indossò la sua sfida—non il suo dolore. Occhiali da sole. Sciarpe. Cappotti con collari netti e linee pulite. Il suo guardaroba non era sontuoso, ma era preciso, ogni pezzo scelto come una parola collocata con cura.

Vestiva come scriveva: con ritmo, e sempre in sfida a ciò che il mondo si rifiutava di riconoscere. A New York, i suoi completi a tre pezzi riecheggiavano l’eleganza dell’Harlem Renaissance—spalle strutturate, tessuti pregiati. Poi, a Parigi, si liberò di quel peso. Alla fine degli anni ’40, l’aumento della violenza razziale e la persecuzione delle persone LGBTQ+ sotto il maccartismo (la cosiddetta “Lavender Scare”) resero la vita pericolosa per Baldwin, uomo nero e queer. Così partì per Parigi, rifugio per artisti come Josephine Baker e Richard Wright. Lì affinò il suo pensiero su razza e potere—trovò un senso di appartenenza e completò il suo primo romanzo pubblicato, **Gridalo forte** (1953), mentre abbozzava **La camera di Giovanni** (1956) e scriveva saggi per la raccolta **Notes of a Native Son** (1955). Il suo stile si evolvette per riflettere il suo bohemianismo intellettuale—trench minimalisti e abiti su misura che rispecchiavano l’estetica raffinata della Rive Gauche parigina e i nascenti design di Pierre Cardin. Più tardi, durante il suo soggiorno a Istanbul negli anni ’60, Baldwin abbracciò silhouette più fluide e ampie, distinguendosi sia dalle uniformi militanti delle Pantere Nere sia dagli eccessi psichedelici della controcultura americana.

Eppure non si assimilò mai completamente allo stile europeo. Tracce di Harlem rimasero—un anello vistoso, una maglia a collo alto aderente, la sua inconfondibile postura. La moda di Baldwin era deliberata: queer, cosmopolita e attentamente controllata, un modo di essere visto senza essere completamente conosciuto.

Figure come W.E.B. Du Bois, Zora Neale Hurston e Baldwin intrecciarono la libertà nei loro abiti—non per vanità, ma come forma di visione. Rivedere il loro stile non è nostalgia; è una lezione su come vestirsi da nero sia un atto di teoria, di divenire, di sopravvivenza.

Chi incarna quell’energia oggi? Prince lo fece, per un periodo, con bluse di pizzo e tacchi vertiginosi, sfidando gli altri a vestire la propria verità. La sua genialità non stava solo nello sfarzo, ma nel creare spazio per l’autoespressione, trattando il tessuto come linguaggio. Allo stesso modo, gli autoritratti di Iké Udé costruiscono una contro-storia dell’eleganza nera, mentre Ekow Eshun affronta lo stile con precisione accademica. Solange Knowles incarna le sue immagini—cromo, cipree, tessuti—ogni scelta intenzionale. Grace Wales Bonner non si limita a disegnare; dissotterra storie, i suoi capi sono saggi in cotone e lana.

Ma pochi hanno bilanciato bellezza e peso come André Leon Talley, con i suoi mantelli maestosi come cattedrali e le sue parole sontuose come velluto. La sua presenza nella moda non era solo simbolica—era sconvolgente.

Questa eredità non è finita. Come nota la studiosa Monica Miller, il dandismo nero è da tempo un modo per reimmaginare l’identità e rivendicare dignità. Nell’ultimo secolo, quella sfida ha preso forma in satin e camoscio, in cravatte e cipree. Ciò che iniziò come resistenza è diventato una tradizione ricca e duratura.